Con Gaza, con la Palestina

a cura della redazione

Poesia come testimonianza, resistenza, lotta.

L’editoriale pubblicato, insieme agli altri contenuti, sul nuovo dominio www.futurasocieta.org , che vi invitiamo a visitare.

L’editoriale di questa settimana inaugura un ciclo di articoli dedicati ai versi e ai poeti palestinesi di ieri e di oggi, nati nell’assedio, sotto le bombe di Israele, in un campo profughi o in esilio. Un modo per far conoscere un aspetto importante della cultura araba, insieme alla vita e alla sofferenza del popolo di Palestina, la cui terra e le cui esistenze sono usurpate da 77 anni con feroce violenza dai sionisti, mentre si compie un genocidio, con la criminale complicità degli Stati Uniti e dell’Occidente, contro il quale è necessario alzare la voce per rompere il muro della spregevole indifferenza del sistema di potere e delle lobby che consentono questo sterminio.

Il componimento che presentiamo è Silenzio per Gaza scritto nel 1973 da Mahmud Darwish (al-Birwa, 13 marzo 1941 – Houston, 9 agosto 2008), poeta, scrittore e giornalista, autore di circa venti raccolte di poesie, pubblicate a partire dal 1964, opere di narrativa e saggi.

È considerato tra i maggiori poeti in lingua araba. Nel 1982 è stato insignito del Premio Lenin per la pace e nel 1987 ha partecipato alla rassegna “Poeti del Mediterraneo per la Pace”, che si è svolta a Firenze.

Sin da giovane si è impegnato sul fronte culturale e politico per la causa della Resistenza palestinese ed è stato più volte incarcerato dalle forze di repressione di Israele. A metà degli anni Sessanta si è iscritto al Partito comunista di Israele. Successivamente ha trascorso un periodo di studi in Unione Sovietica. Negli anni Ottanta è diventato dirigente dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), ma nel 1993 si è dimesso dal Comitato Esecutivo, perché contrario agli accordi di Oslo.

A partire dal 1994 venne eletto nel Consiglio legislativo palestinese nei Territori occupati, il Parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ha redatto il testo della Dichiarazione d’Indipendenza (dello Stato) Palestinese, documento promulgato nel 1988 e riconosciuto da diversi Stati. Ha trascorso molti anni in esilio.

Silenzio per Gaza                                                            

Si è legata l’esplosivo alla vita e si è fatta esplodere.

Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.

E’ il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.

Da quattro anni, la carne di Gaza schizza schegge di granate da ogni direzione.

Non si tratta di magia, non si tratta di prodigio.

E’ l’arma con cui Gaza difende il diritto a restare e snerva il nemico.

Da quattro anni, il nemico esulta per aver coronato i propri sogni, sedotto dal flirtare col tempo, eccetto a Gaza.

Perché Gaza è lontana dai suoi cari e attaccata ai suoi nemici, perché Gaza è un’isola.

Ogni volta che esplode, e non smette mai di farlo, sfregia il volto del nemico, spezza i suoi sogni
e ne interrompe l’idillio con il tempo.

Perché il tempo a Gaza è un’altra cosa, perché il tempo a Gaza non è un elemento neutrale.

Non spinge la gente alla fredda contemplazione, ma piuttosto a esplodere e a cozzare contro la realtà.

Il tempo laggiù non porta i bambini dall’infanzia immediatamente alla vecchiaia, ma li rende uomini al primo incontro con il nemico.

Il tempo a Gaza non è relax, ma un assalto di calura cocente.

Perché i valori a Gaza sono diversi, completamente diversi.

L’unico valore di chi vive sotto occupazione è il grado di resistenza all’occupante.

Questa è l’unica competizione in corso laggiù.

E Gaza è dedita all’esercizio di questo insigne e crudele valore che non ha imparato dai libri
o dai corsi accelerati per corrispondenza, né dalle fanfare spiegate della propaganda
o dalle canzoni patriottiche.

L’ha imparato soltanto dall’esperienza e dal duro lavoro che non è svolto in funzione della pubblicità
o del ritorno d’immagine.

Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo bilancio.

Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e offre il suo sangue.

Gaza non è un fine oratore, non ha gola.

E’ la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il sudore, le fiamme.

Per questo, il nemico la odia fino alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel mare, nel deserto, nel sangue.

Per questo, gli amici e i suoi cari la amano con un pudore che sfiora quasi la gelosia e talvolta la paura, perché Gaza è barbara lezione e luminoso esempio sia per i nemici che per gli amici.

Gaza non è la città più bella.

Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe.

Le sue arance non sono le migliori del bacino del Mediterraneo.

Gaza non è la città più ricca.

(Pesce, arance, sabbia, tende abbandonate al vento, merce di contrabbando,
braccia a noleggio.)

Non è la città più raffinata, né la più grande, ma equivale alla storia di una nazione.

Perché, agli occhi dei nemici, è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata,
la più feroce di tutti noi.

Perché è la più abile a guastare l’umore e il riposo del nemico ed è il suo incubo.

Perché è arance esplosive, bambini senza infanzia, vecchi senza vecchiaia, donne senza desideri.

Proprio perché è tutte queste cose, lei è la più bella, la più pura, la più ricca, la più degna d’amore tra tutti noi.

Facciamo torto a Gaza quando cerchiamo le sue poesie.

Non sfiguriamone la bellezza che risiede nel suo essere priva di poesia.

Al contrario, noi abbiamo cercato di sconfiggere il nemico con le poesie, abbiamo creduto in noi
e ci siamo rallegrati vedendo che il nemico ci lasciava cantare e noi lo lasciavamo vincere.

Nel mentre che le poesie si seccavano sulle nostre labbra, il nemico aveva già finito di costruire strade, città, fortificazioni.

Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente più di una piccola e povera città che resiste.

Quando ci chiediamo cos’è che l’ha resa un mito, dovremmo mandare in pezzi tutti i nostri specchi e piangere se avessimo un po’ di dignità, o dovremmo maledirla se rifiutassimo di ribellarci contro noi stessi.

Faremmo torto a Gaza se la glorificassimo.

Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarla.

Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà.

Non ha cavalleria, né aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere.
In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra lingua e i suoi invasori.

Se la incontrassimo in sogno forse non ci riconoscerebbe, perché lei ha natali di fuoco e noi natali d’attesa e di pianti per le case perdute.

Vero, Gaza ha circostanze particolari e tradizioni rivoluzionarie particolari.

(Diciamo così non per giustificarci, ma per liberarcene.)

Ma il suo segreto non è un mistero: la sua coesa resistenza popolare sa benissimo cosa vuole (vuole scrollarsi il nemico di dosso).

A Gaza il rapporto della resistenza con le masse è lo stesso della pelle con l’osso e non quello dell’insegnante con gli allievi.

La resistenza a Gaza non si è trasformata in una professione.

La resistenza a Gaza non si è trasformata in un’istituzione.

Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla firma né al marchio di nessuno.

Non le importa affatto se ne conosciamo o meno il nome, l’immagine, l’eloquenza.

Non ha mai creduto di essere fotogenica, né tantomeno di essere un evento mediatico.

Non si è mai messa in posa davanti alle telecamere sfoderando un sorriso stampato.

Lei non vuole questo, noi nemmeno.

La ferita di Gaza non è stata trasformata in pulpito per le prediche.

La cosa bella di Gaza è che noi non ne parliamo molto, né incensiamo i suoi sogni con la fragranza femminile delle nostre canzoni.

Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli allibratori.

Per questo, sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli arabi.

La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente la distoglie.

Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico.

Né il modo di spartire le poltrone del Consiglio Nazionale, né la forma di governo palestinese che fonderemo dalla parte est della Luna o nella parte ovest di Marte, quando sarà completamente esplorato.

Niente la distoglie.

E’ dedita al dissenso: fame e dissenso, sete e dissenso, diaspora e dissenso, tortura e dissenso, assedio e dissenso, morte e dissenso.

I nemici possono avere la meglio su Gaza.

(Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola.)

Possono tagliarle tutti gli alberi.

Possono spezzarle le ossa.

Possono piantare carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini.

Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.

Ma lei: non ripeterà le bugie.

Non dirà sì agli invasori.

Continuerà a farsi esplodere.

Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.

Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.


Immagini: copertina – Jaber Jehad Badwan, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0&gt;, via Wikimedia Commons; nel testo: Mahmoud Darwish – Amer Shomali, CC BY-SA 3.0 <http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/&gt;, via Wikimedia Commons;
Arafat, Darwish e Habash in uno scatto all’incirca del 1980 – Syrian photographer working for the Syrian News Agency (SANA), Public domain, via Wikimedia Commons

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