di Stefano Tenenti
L’editoriale della settimana dedicato alla consultazione referendaria dell’ 8 e 9 giugno, pubblicato sul nuovo dominio www.futurasocieta.org, insieme agli altri contenuti, che invitiamo a visitare.
Siamo ormai arrivati nella fase conclusiva della lunga tornata referendaria sui temi del lavoro proposti da una organizzazione sindacale (Cgil) che avrebbe potuto e dovuto affrontare le questioni sottoposte alla consultazione dell’8 e 9 giugno in modo completamente diverso, cioè con le modalità tipiche di un sindacato di massa con capacità conflittuali cosa che, da troppo tempo, non è più nelle “corde” né del sindacato in questione né delle cosiddette strutture confederali unitarie, votate da decenni alla concertazione.
E’ del tutto evidente infatti che le correzioni normative che si vogliono apportare votando Sì ai quesiti referendari sono, di fatto, il frutto avvelenato indotto dalla concertazione su diritti, salari, Statuto dei Lavoratori che i governi di centrodestra e pseudo centrosinistra hanno tradotto in termini legislativi sapendo, a priori, che non avrebbero ricevuto reazioni apprezzabili proprio dai soggetti che avrebbero invece dovuto impedire con tutti i mezzi a disposizione lo scempio puntualmente verificatosi.
Basti qui ricordare che il primo tema riguarda l’abrogazione del famigerato “Jobs Act” renziano in particolare il decreto legislativo n° 23 del 4 marzo 2015. Una norma appunto del 2015, contro la quale, dieci anni fa, non è stato fatto praticamente nulla (4 ore di sciopero).
Diventa quindi obbligatorio porsi una domanda affatto retorica: perché si sono attesi dieci anni per raccogliere le firme e tentare di abrogare norme così pesanti per i lavoratori italiani?
Purtroppo la risposta deve necessariamente descrivere una realtà innegabile, quella riferita al persistere dal 2015 in avanti di compagini
governative impresentabili, ma verso le quali il sindacato promotore e tantopiù le altre confederazioni avevano un atteggiamento di “non belligeranza” se non di complicità.
Analoghe considerazioni si possono fare per gli altri tre quesiti sottoposti a referendum abrogativo che, inevitabilmente, scontano una difficoltà obiettiva, quella cioè legata al fatto di dover puntare ad un effetto favorevole per i lavoratori, abrogando articoli o parte di articoli sperando così che determini l’effetto voluto. Cosa tutt’altro che facile e scontata.
In definitiva, e restando al solo quesito n°1, la vittoria del Sì non significa tornare alle regole dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma alla modifica precedente, cioè alla riforma Fornero, che nel 2012 aveva già limitato molto il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, prevedendo nella maggior parte dei casi solo un risarcimento.
Se vincesse il Sì, solo per alcuni licenziamenti, come quelli nulli o discriminatori, sarebbe di nuovo possibile il reintegro oltre al risarcimento. E l’indennizzo massimo previsto sarebbe di ventiquattro mensilità, come previsto dalla riforma Fornero, quindi più basso di quello previsto dalle norme attuali che il referendum vuole abolire. Inoltre, l’articolo 18 riformato si applicherebbe comunque solo ai dipendenti delle aziende di medio-grandi dimensioni, mentre i lavoratori delle piccole imprese continuerebbero a essere tutelati soltanto con un indennizzo.
Come dicevamo all’inizio di queste brevi considerazioni, visto che ci troviamo a ridosso dei giorni della consultazione facciamo prevalere lo “spirito di servizio” affermando, con una certa dose di spregiudicatezza, che siccome l’effetto cumulato di un eventuale prevalere del Sì e del superamento del quorum potrebbe avere effetti positivi, anche se marginali, sulle condizioni dei lavoratori, in particolare per quanto riguarda il quesito n° 4, che estende la responsabilità di impresa anche al subappalto possiamo affermare che andare si può andare a votare, per non dire si deve.
Completiamo l’informazione con una breve sintesi concreta sulla consultazione e degli effetti in caso di vittoria.
Il primo dei quattro referendum sul lavoro chiede l’abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti del “Jobs Act”. Nelle imprese con più di 15 dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi non possono rientrare nel loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo. Sono oltre 3 milioni e 500mila ad oggi e nei prossimi anni aumenteranno le lavoratrici e i lavoratori penalizzati da una legge che impedisce il reintegro anche nel caso in cui la/il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto. Abroghiamo questa norma, diamo uno stop ai licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo.
Il secondo riguarda la cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti nelle piccole imprese. In quelle con meno di 16 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento, anche qualora una/un giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto. Questa è una condizione che tiene le/i dipendenti delle piccole imprese (circa 3 milioni e 700mila) in uno stato di forte soggezione. Obiettivo è innalzare le tutele di chi lavora, cancellando il limite massimo di sei mensilità all’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato affinché sia la/il giudice a determinare il giusto risarcimento senza alcun limite.
Il terzo punta all’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine per ridurre la piaga del precariato. In Italia circa 2 milioni e 300 mila persone hanno contratti di lavoro a tempo determinato. I rapporti a termine possono oggi essere instaurati fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. Rendiamo il lavoro più stabile. Ripristiniamo l’obbligo di causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato.
Il quarto interviene in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Arrivano fino a 500mila, in Italia, le denunce annuali di infortunio sul lavoro. Quasi 1.000 i morti: vuol dire che in Italia ogni giorno tre lavoratrici o lavoratori muoiono sul lavoro. Modifichiamo le norme attuali, che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell’imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro.
Immagine: Estratto della Costituzione della Repubblica Italiana sulla facciata del Palazzo del Governo di Livorno – foto di pubblico dominio di Sailko – Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50326568
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