Migrazioni e censura. Intervista a Michelangelo Severgnini

a cura della redazione

Il tema “migranti”, terreno privilegiato delle polemiche politiche della destra, sempre intrise di demagogia e razzismo, che con il governo Meloni si è dimostrata incapace di gestire concretamente le criticità, richiede un’analisi lucida ed approfondita, in grado di andare oltre gli schemi consueti e le ambiguità del Pd e del centrosinistra. Non si possono d’altra parte, infatti sottacere le implicazioni geopolitiche e gli interessi economici in ballo. Sulla questione continua a pesare un clima di censura, che impedisce narrazioni alternative. Un problema sollevato dal documentarista Michelangelo Severgnini, una delle voci fuori dal coro, che proponiamo ai lettori, con questa nostra intervista.

Regista indipendente, esperto di Medioriente e Nord Africa, musicista, Michelangelo Severgnini ha vissuto a Milano, Roma, Napoli, per un decennio a Istanbul, nonché a Berlino. Approdato poi a Palermo, dal 2018 anima il progetto “Exodus” in contatto con centinaia di persone in Libia.

Ha realizzato diversi documentari indipendenti a partire dai primi anni 2000, tra i quali Il ritorno degli Aarch – i villaggi della Cabilia scuotono l’Algeria, (‘60, 2003), …e il Tigri placido scorre… – istantanee dalla Baghdad occupata, (‘70, 2004), Isti’mariyah – controvento tra Napoli e Baghdad (‘80, 2006) che ricevono diversi premi tra cui il Cmca di Marsiglia (Centre Méditerranéen de la Communication Audiovisuelle), il SoleLuna film festival di Palermo e vengono distribuiti in Italia con le riviste «Carta» e «Peacereporter». Nel 2007 ha vinto il premio della critica “Ilaria Alpi” con il documentario Stato di paura, prodotto dall’agenzia H24 per La7, per la quale lavora 4 anni producendo, nel frattempo, documentari anche per Rai3. Nel 2012 viene presentato al festival di Roma il documentario L’uomo con il megafono, (‘60) girato a Napoli. Ricordiamo anche Il ritmo di Gezi, (‘45, 2014), Linea de fuga – il circolo di Podemos a Berlino (‘90, 2017) e Schiavi di riserva (‘35, 2018).

D. Severgnini, nel suo filone di lavoro come regista, da ultimo ha realizzato in serie L’Urlo (dove i protagonisti sono in larga parte migranti rimasti bloccati in Libia) di cui riprende le video testimonianze, Il cielo sopra Bengasi, nato a seguito del suo viaggio in Libia, Io no, capitano! (che si pone in antitesi al celebre film di Garrone) realizzato a seguito della sua visita in Senegal e Una storia antidiplomatica in cui sviluppa e amplia, pervenendo a una sintesi finale, considerazioni già emerse nei precedenti lavori. Qual è il filo conduttore di queste opere? 

R. Queste opere che avete elencato non sarebbero state possibili senza la possibilità di accedere direttamente alle fonti sul campo in Libia. Credo che questo sia il filo conduttore. Tutto è successo un giorno dell’estate 2018: trovai un modo per entrare in contatto diretto via internet con la gente in Libia. Da qui è nato tutto, perché le fonti dirette hanno smentito nella sostanza il racconto o meglio la propaganda che se ne faceva in Europa. Dalle fonti dirette sul campo, tra cui centinaia e centinaia di migranti-schiavi, il cerchio si è allargato, fino ai contatti con le legittime istituzioni libiche che, da Bengasi, si sono accorte dello sforzo con cui provavo a raccontare la Libia. Al tempo stesso, però, si sono diramati anche i contatti con il resto dell’Africa, grazie ai migranti di ritorno, cioè, quei migranti che, una volta capito il trucco dell’immigrazione irregolare, dalla Libia sono riusciti a tornare a casa e hanno dato vita ormai a una rete di associazioni che lottano contro la tratta di esseri umani, attraverso la sensibilizzazione dei giovani, le prime vittime, e la denuncia degli adescatori legati alle mafie della migrazione. L’ultimo lavoro, Una storia antidiplomatica, è vero, riassume, però sposta l’asticella ancora più in alto perché, documenti ufficiali alla mano, si lancia una costituente della migrazione con esiti che ribaltano i paradigmi fin qui assunti, per esempio che militarizzare la migrazione serva a fermarla. Al contrario, serve a spingerla. Sei anni di ricerca sul campo e attraverso fonti sul campo e documenti ufficiali hanno portato a questa conclusione.

D. Che riscontro hanno avuto presso il pubblico i suoi lavori?

R. La distribuzione del film L’Urlo è stata impedita sin dall’inizio dallo stesso produttore che aveva appena finito, appunto, di produrlo. Cosa l’abbia spinto a cambiare improvvisamente idea non è pubblico e tanto meno io la conosco. Pertanto, non è facile dire come il pubblico abbia reagito, dal momento che il film è stato proiettato solo in qualche rassegna e non è stato possibile candidarlo ai principali festival, né passarlo in tv, né caricarlo su internet. Benché molti ne parlino e molti millantino di averlo visto, solo poche migliaia di persone hanno potuto vedere il film, grazie soprattutto a circa sessanta proiezioni realizzate negli ultimi due anni grazie alla legge sul diritto d’autore che mi consente di proiettare il film a scopo divulgativo in mia presenza. Il film è stato proiettato anche a Istanbul, Bengasi, Dakar, Lagos. E devo dire, chiunque l’abbia visto, è rimasto senza parole. Le polemiche sono sorte da chi non ha visto il film e da chi non aveva interesse a farlo circolare. Tutto è iniziato quando, poco prima dell’inizio delle riprese, rifiutai un finanziamento di un’associazione legata alla Open Society Foundation, che mi chiedeva di tagliare alcuni messaggi ricevuti dai migranti-schiavi in Libia dalla sceneggiatura. Dal mio rifiuto in poi, non ho avuto più pace. Per quanto riguarda Il cielo sopra Bengasi e Io no, capitano!, questi sono due documentari brevi televisivi per l’emittente Byoblu che mi ha dato la possibilità in piena autonomia di realizzarli e trasmetterli. Ho raccolto ottimi riscontri e Io no, capitano! è proiettato in Senegal da diversi mesi dalle associazioni senegalesi che lottano contro l’immigrazione irregolare. Entrambi i documentari sono disponibili gratuitamente sul sito di Byoblu. Una storia antidiplomatica è uscito da poco anche se è disponibile a prezzo popolare sul canale video dell’AntiDiplomatico. Pertanto, è presto per sapere quale reazione provocherà, ma dalle prime recensioni e dai primi segnali penso che se ne parlerà presto.

D. Nel corso del tempo è stato lei stesso a denunciare i fenomeni di censura in cui spesso si è imbattuto: dalle vicende di Napoli in cui le è stato impedito la proiezione de L’Urlo, passando al suo documentario Referendum oscurato dagli algoritmi di YouTube. Insomma, esiste un serio problema di libertà di espressione nel nostro Paese?

R. La censura di questi anni è una censura di guerra. Come giustamente ha detto Assange, non inizi una guerra se non con le menzogne. Ma questa è una lezione che io imparai in Kosovo nel 1998. Pertanto, più si avvicina e si allarga la guerra, più servono menzogne, da un lato, per sostenerla ma anche la censura per togliere di mezzo voci di disturbo. Non si creda che la censura de L’Urlo sia dovuta al fatto che le Ong si sarebbero risentite per qualche parola detta dai migranti-schiavi in Libia. Questo è il primo livello di lettura, quello per le favole. Ne L’Urlo e ancora di più in Una storia antidiplomatica denuncio la guerra finanziata dall’Italia in Libia, a partire dal 2014, per il saccheggio del petrolio libico, contro le legittime autorità libiche in una dinamica di occupazione. In poche parole, io denuncio che l’Italia finanzia la guerra in Libia ed essi parlano di migranti che ne sono la conseguenza. Censurare L’Urlo serviva a questo, a nascondere la guerra dell’Italia in corso in Libia.

D. Ha già un altro progetto in mente per il futuro?

R. Ho diversi progetti per i prossimi mesi. Sto lavorando ad un nuovo libro che racchiuda venti anni di esperienze sul campo, contro la guerra e le menzogne, con i miei diari di viaggio in Kosovo, Algeria, Iraq, Siria, Kurdistan, Libia, Tunisia, ecc. Sto, poi, preparando un nuovo documentario breve, di cui però ancora non posso rivelare l’argomento. Ma sto lavorando anche ad un album musicale che vedrà la luce quest’anno.

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