Velvet Underground and Nico

di Sergio Leoni

Quando il mercato non è il metro di misura dell’opera d’arte: Velvet Underground and Nico, uscito nel 1967, in cinque anni vendette appena trentamila copie, ma oggi viene considerato sicuramente una pietra miliare del rock e, in qualche misura, anche un ispiratore del “punk” e della “new wawe”.

Concepito nel 1966 e pubblicato nell’anno seguente, Velvet Underground and Nico rappresenta un “evento” che non fu inizialmente compreso dal pubblico (si disse, secondo la solita logica economicista, che in cinque anni il disco aveva venduto appena trentamila copie, in effetti una cifra irrisoria per il vastissimo mercato Usa), ma “attenzionato” comunque da una critica musicale che, nel patrocinio di Andy Wharol (produttore insieme ad un non troppo famoso Tom Wilson) aveva visto una sorta di garanzia per un album che oggi è comunemente considerato sia una pietra miliare del rock in senso generico, sia un antesignano di altri fenomeni musicali, non senza qualche forzatura, quali il “punk”e la “new wave”.

La copertina, studiata appunto dallo stesso Andy Wharol per una operazione musicale e insieme artistica a più largo raggio, ha identificato in maniera immediata il disco al gruppo dei, fino ad allora non troppo famosi, tutto sommato, Velvet Underground (senza Nico). Quella banana, che riprende e concentra tutto lo stile di Wharol, non è soltanto la conseguenza, la logica prosecuzione di un percorso artistico di cui fanno parte le tante Marylin Monroe declinate in un gioco potenzialmente infinito di colori, le altrettanto ossessive ripetizioni della passata di pomodoro Campbell, ma una sorta di marchio di fabbrica dell’artista newyorkese che in quegli anni ha vissuto la più alta espressione del suo talento. Non per niente l’“ambiente”, l’“atmosfera” in cui sono nate le opere e le iniziative di un artista che ha saputo muoversi su più piani e in circostanze differenti, aveva un preciso nome:“Factory”. Fabbrica. Che, naturalmente, non indica in nessun modo qui quello che il termine, soprattutto da questa parte dell’oceano significa (lavoro, sangue e sudore), ma lavoro condiviso, progetti comuni, il tutto in un ambito tutto sommato ristretto quando non decisamente elitario. Un progetto, un’ idea che poteva anche essere a suo modo e nei suoi limiti innovativa, ma che niente aveva a che fare con questioni di “classe” in un’America immersa fino al collo nelle questioni della guerra fredda che in quegli anni aveva raggiunto picchi di pericolosità di cui forse solo oggi è possibile rilevare tracce inquietanti, in un contesto mondiale di continuo scontro ideologico tra due opposte visioni generali del mondo. Qui non si tratta di voler valutare ogni fenomeno, e tanto più un fenomeno “sfuggente” come quello artistico, solo alla luce di un’analisi di classe e comunque orientata secondo i canoni di un materialismo più o meno consapevole. La questione sembra di poter essere posta in altri termini, valutando cioè se un certo fenomeno (in questo caso musicale ma la questione non cambierebbe in altri ambiti) che sia un momento di rottura “oggettiva” rispetto a qualunque status quo, abbia un valore, per una critica che si vuole orientata secondo un’analisi materialistica di stampo socialista, o se debba, sempre in quest’ottica, essere sbrigativamente archiviata come irrilevante o, al più, espressione di una cultura borghese pienamente sviluppata.

Nella mancanza pressoché totale di analisi, ancorché generiche, da parte della più consolidata cultura di sinistra rispetto a fenomeni come quello rappresentato dai Velvet, che hanno nel migliore dei casi abbozzato una critica “esclusivamente” su un piano musicale, è difficile ora valutare quanto di quella cultura alternativa (in senso lato quanto si vuole) abbia influenzato la società e in particolare le giovani generazioni. Strette, a loro volta e per loro sfortuna, tra la dicotomia che ha voluto vedere in tutto questo un movimento sbrigativamente liquidato come “hippie”, momento di una cultura estranea (e in Italia per certi versi lo era davvero), contrapposto ad una presunta ma mai definita tradizione nazionale.

E se qualcuno ha potuto ignorare quello che è stato un vero “avvenimento” come il grande raduno di Woodstock declassandolo a fenomeno borghese, questo è avvenuto per l’incapacità di una gran parte della intellighenzia italiana sedicente di “sinistra” di leggere la realtà di ogni giorno, quella che, inesorabilmente, sedimenta una cultura generale, nei suoi aspetti positivi ma più spesso negativi.

Nel 1951 Theodor Adorno pubblica il suo libro forse più conosciuto, se non decisamente il più importante: Minima moralia. Sottotitolo: “Meditazioni della vita offesa”.

Naturalmente un’opera del genere meriterebbe un articolo, e forse più di un articolo, per provare a spiegare e rendere il senso di un testo certamente di non facile lettura ma che rappresenta, ancora oggi, la più serrata, puntuale e direi definitiva critica della società dei consumi e delle disuguaglianze, della falsa coscienza e dell’ideologia più reazionaria. E non è senza una qualche sorpresa che, rileggendone oggi alcune pagine, ci si può rendere conto di quanto quelle analisi che “leggevano” una realtà sociale oggi ormai discretamente lontana nel tempo e costituita da uno scenario concreto molto diverso da quello attuale, si scopre che quella critica radicale è ancora sostanzialmente valida, semplicemente aggiornando ma non stravolgendo uno scenario sociale che pare in effetti essere immutato e riprodursi nel tempo sempre uguale a se stesso.

Notizie sui singoli componenti del gruppo musicale, su cui normalmente si potrebbe sorvolare indicando al più una qualche particolarità da rilevare, nel caso dei Velvet Undergound diventano importanti nella misura in cui ognuno di loro, per una bizzarra ma certo voluta “alchimia”, rappresenta un quid, qualcosa di particolare che “mixato”, per usare un termine da sala di registrazione, compone qualcosa di insolitamente nuovo.

In breve: Lou Reed è troppo famoso perché su di lui si possa tentare di aggiungere, anche solo per grandi linee, notizie ad una biografia ormai purtroppo consolidata di cui abbiamo una data di nascita e quella di una morte dignitosa e serena, come hanno ampiamente testimoniato persone a lui vicine, e infine , “consapevole”.

Chi scrive ha avuto la fortuna di ascoltare quello che non era propriamente un concerto, (anche se Lou Reed imbracciava la sua chitarra elettrica), ma una sorta di “commento” musicale, difficile perfino da definire, ulteriore prova della volontà e della capacità di questo artista di sperimentare nuovi formati, ad un testo tanto famoso quanto poco frequentato: Il Corvo di Edgar Allan Poe. Accompagnato peraltro in questa ulteriore esperienza musicale dalla non meno famosa sua moglie, quella Laurie Anderson compagna di tanti suoi “esperimenti”.

John Cale, il polistrumentista del gruppo, viene da un’esperienza musicale, quella di Lamonte Young, (che implica naturalmente la lezione di Terry Riley, e siamo nell’ambito della cosiddetta musica “minimalista”) che costituisce un qualche tipo di avanguardia nel panorama musicale europeo, con la ripresa di strutture musicali “altre”, provenienti da paesi per noi apparentemente lontani in termini musicali (India), ma perfettamente assimilabili nella semplice constatazione di un comune sostrato musicale che forse unifica il mondo intero. Sia detto per inciso, tutti questi tre musicisti sono americani, segno che anche in un paese così segnato dalle più potenti ideologie capitaliste, c’è stata e probabilmente c’è ancora una cultura “altra”, sotterranea. Underground, appunto, e magari non tanto “vellutata”.

Sterling Morrison è l’ anima rock del gruppo, che esprime senza remore in una band che ha “bisogno” di questo lato musicale, di questo bagno in uno streaming, quello dei ‘60, in cui il rock è ancora in parte rock’and roll, e le novità che segneranno un ‘intera epoca non si sono ancora espresse. 

La batterista (qualcuno la relega, sbagliando, al ruolo di semplice percussionista), Maureen Tucker, è per certi versi davvero la figura più interessante, perché la più eccentrica in un mood musicale consolidato che lei mette di fatto in discussione, esprimendo un nuovo modo di essere musicista.

Una batterista, una batterista donna, era una concezione praticamente inconcepibile in una realtà in cui i ruoli erano sostanzialmente definiti e consolidati. Congelati, si potrebbe del resto dire, secondo canoni che tuttavia, e abbastanza in fretta, si sono in effetti rivelati del tutto incapaci di “leggere” in maniera appropriata nuove realtà. Oggi una donna al basso non è più una stranezza, e in certi contesti (Pink), perfino la norma.

Maureen Tucker si può tranquillamente considerare come una antesignana nel mettere in discussione la figura del batterista fino ad allora consolidata, quella di un musicista in cui lo sforzo “fisico” di suonare uno strumento che ha effettivamente molto di “fisico”. E gli oppone una ritmica scarna, essenziale, estremamente efficace, dove applicata ai brani dei Velvet.

Per apprezzare lo stile di Maureen Tucker è sufficiente un solo consiglio: ascoltare Romeo and Juliet che in realtà non fa parte del disco di cui stiamo parlando, che è facilmente ascoltabile in rete e che spiega più di ogni altra parola uno stile apparentemente semplice ma di un’efficacia straordinaria. E che consiste, se è proprio necessario dare qualche indicazione pratica, nel quasi esclusivo uso dei tamburi e, insieme, nella quasi assenza del ruolo dei cimbali in genere, siano essi il più che usato charleston, fino al meno usato, e qui del tutto ignorato “piatto” su cui ogni musicista rock ha fondato, in maniera più o meno grande, il suo “stile”.

È superfluo dire come Andy Wharol abbia rappresentato, in questo lavoro, una specie di sesto componente del gruppo, nel momento che il suo apporto si esprime non soltanto in una generica “ispirazione” non meglio identificabile, ma nel saper indicare il cuore, il nocciolo delle questioni che una società in continua evoluzione (quella americana che a noi peraltro appariva così compatta, così facilmente interpretabile, e di cui in realtà non coglievamo le reali coordinate) al cui cambiamento, se non altro su un piano genericamente “artistico” la Factory contribuiva in larga parte.

Tutto ciò costituisce un’impronta indelebile. Ed è una situazione che avrà un grande seguito negli anni a seguire, quando si consoliderà sempre di più la figura non tanto di un produttore, quanto quella di un vero e proprio mentore. Alcuni decenni più tardi, Pete Sienfeld, vero ispiratore dei King Crimsom (progressiv rock al massimo livello), verrà addirittura citato nelle note di copertina.

Christa Paffgen, nome d’arte Nico (1938-1988), è la cantante che partecipa, ma solo in parte, alla registrazione di questo disco. 

Nico è in realtà un personaggio talmente sfaccettato e dai tanti aspetti artistici che meriterebbe un articolo dedicato soltanto alla sua figura. Che ha attraversato tante di quelle stagioni artistiche, nelle più diverse gradazioni, da rendere quantomeno problematico provare a dare un quadro coerente di questa artista a tutto tondo.

Nico canta in appena tre brani del disco di cui stiamo cercando di dare delle coordinate, ma non è scontato dire che una delle chiavi per ricordarlo e memorizzarlo, sta nel loro ascolto. Nell’ascolto, cioè, di brani in apparenza semplici, minimali in realtà (John Cale). 

All tomorrow party non può essere musicalmente definito con facilità. Ci sono, naturalmente echi di musica minimalista (Cale), ma anche un andamento non del tutto rock, quantomeno nella struttura che non prevede assoli, bridge e tutti quei “cliché” che in musica non hanno un significato negativo ma indicano semplicemente quelli che in letteratura si definirebbero come “stilemi”.

“E quale abito indosserà mai la povera fanciulla / a tutte le feste di domani? / un vestito di seconda mano, preso chissà dove / a tutte le feste di domani / E dove andrà e cosa farà / allo scoccare della mezzanotte?/Si trasformerà ancora una volta nel pagliaccio della domenica / e piangerà dietro la porta.”

I’ll be your mirror è strutturato su un ritmo ancora più lento, ancora più minimale. La voce di Nico, che non dobbiamo immaginare come la voce di una cantante che lancia note di un certo peso e diventa la protagonista del brano (Mina, tanto per capirci), ma al contrario sembra sussurrare le parole, con un effetto ipnotico, è “strumento” a fianco di strumenti che sembrano privilegiare il “togliere” piuttosto che l’aggiungere, che sussurrano piuttosto che gridare e in cui l’acuto, o comunque il virtuosismo vocale, è del tutto bandito.

“Sarò il tuo specchio / rifletterò quello che sei / nel caso non lo sapessi / sarò il vento, la pioggia e il tramonto / la luce alla tua porta / per mostrarti che sei a casa / Trovo difficile/ credere che tu non sia consapevole della tua bellezza / ma se non lo sei lascia che io sia i tuoi occhi / una mano nel tuo buio, così che tu non abbia paura.”

Il testo di Femme fatal, e la musica altrettanto sottotono rispetto al mainstream di un rock che in quegli anni la faceva da padrone, sono l’esempio migliore di una operazione complessiva in cui, per così dire, tutto si tiene: c’è un testo provocatorio, c’è un ironico distacco che prefigura un sottotesto possibile, c’è una musica che sottolinea, con poche “pennellate” (ma bisognerebbe in realtà tenersi alla larga da incauti parallelismi tra arti che poco hanno a che vedere tra loro) una situazione, un contesto facilmente identificabile. 

“Eccola che arriva / attento a come ti muovi / ti spezzerà il cuore in due / davvero / Non è difficile da capire / basta guardare il colore falso dei suoi occhi / ti elogerà solamente per poi umiliarti / che pagliaccio”.

Sono solo alcune frasi, forse neanche del tutto significative, con cui, al netto di una traduzione in italiano che certamente fa perdere gran parte della musicalità del testo inglese, ma che comunque danno l’idea del tono “minimale” (John Cale).

Lo scenario del resto non cambia se si guarda e si ha la pazienza di andare a leggere i testi dei Velvet nella loro completezza, perché qui davvero, con una metafora scontata, il pedale rappresenta tutta la bicicletta.

Nel senso che i testi che scriveranno i diversi componenti del gruppo, quando questo si scioglierà, più o meno ufficialmente, e questi percorreranno strade musicali diverse, saranno tutti, più o meno, sotto il segno di quella esperienza iniziale. Segno di una specie di imprinting, in senso del tutto positivo, che sarà poi alla base, e in altri contesti, della capacità di consolidarsi da parte della musica rock, e di uscire dalla trappola di essere considerata come un fenomeno passeggero.

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